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Ancora ricordo con nitida chiarezza quel primo pomeriggio di ormai sei mesi fa, quando finalmente giunse una chiamata che nemmeno aspettavo più: Alfredo Cantoni (suvvia, troppo presto per presentazioni e ringraziamenti) aveva in serbo per me una proposta che avrebbe cambiato tutto.

“Nicolas, ti andrebbe di andare per cinque settimane in…”

Ci fu un’esitazione, probabilmente molto breve, ma quella frazione di secondo bastò alla mia mente per elaborare immagini delle più belle città del mondo che accelerarono i miei battiti cardiaci. Ma quando finalmente la parola arrivò, era inaspettata: “Arizona”.

Per essere onesto, non sapevo nemmeno l’esatta ubicazione dell’Arizona, ma il nome era un’indicazione più che sufficiente per me: terra arida, deserto. Congedato Alfredo con un deludente “ci devo pensare”, nelle 24 ore successive è stato un susseguirsi di ricerche online e soprattutto telefonate. Perché non sono mai stato molto bravo a prendere decisioni e avevo un disperato bisogno di consigli. E così in molti hanno tentato con forza di convincermi a superare quell’insicurezza, altri hanno cercato di farmi ragionare su quale follia fosse passare luglio nel bel mezzo del deserto. Immagini di cactus e serpenti popolavano la mia mente insieme a pomeriggi di noia assoluta e rimpianti di non essermi semplicemente accontentato della mia solita tranquilla estate.

Quasi mi vergogno di averci pensato così tanto, di essere stato così vicino dal rifiutare.

Ma per fortuna persone molto più brave di me a prendere decisioni mi hanno fatto ravvedere, e la mia risposta finale fu affermativa.

Probabilmente se avessi saputo prima dell’esistenza di questi resoconti non sarebbe stato così difficile, ma purtroppo solo più tardi, grazie alle testimonianze di altri partecipanti a questo progetto ho realizzato quanto avrei dovuto essere eccitato per l’avventura che mi aspettava.

E lo fui, contando ogni giorno prima della mia partenza.

 

Dopo un eterno viaggio che ci ha portati dall’altra parte del mondo e sconvolti da nove ore di fuso orario, ci siamo finalmente tutti incontrati, dieci ragazzi dai 17 ai 19 anni, ognuno proveniente da una differente nazione. Ormai credevo di conoscerli tutti bene dopo aver passato ore con loro su Skype e in chat, ma il fatto che non siamo nemmeno riusciti a riconoscerci dal vivo è bastato a farmi capire che mi sbagliavo di grosso.

Ecco, all’inizio è stato traumatico, sapevo di non avere un inglese perfetto, ma non avrei mai immaginato di ritrovarmi in un cupo silenzio causato non da lacune grammaticali o lessicali, bensì da totale assenza di pratica. Ma l’eccitazione era alle stelle, gli Stati Uniti d’America, che per tutta l’infanzia ho visto in televisione, erano intorno a me. Tutto era così simile eppure così profondamente differente. Non c’era nulla che non avessi già visto in un film o in una Serie Tv, ed è forse proprio quello il fascino degli States: vivevo in un film.

I primi due giorni furono di ambientamento e di una sorta di relax. La stanchezza non mi abbandonava e il mio desiderio di tornare a destreggiarmi con l’italiano si acuiva, ma sicuramente l’impegno di metterci a nostro agio in quello splendido albergo c’è stato.

Ma è il terzo giorno il vero inizio del programma: ancora inconsci di ciò che ci aspettava entriamo in quel furgone che sarebbe diventato quasi un simbolo del nostro legame nel mese a venire. Così per una settimana abbiamo viaggiato in lungo e in largo per tutto il Sud dell’Arizona, visitando una dozzina di città e paesi e godendo dell’accoglienza di ancor più Lions Clubs che ci hanno deliziato con abbondati pasti e sempre omaggiati con cerimonie d’onore. La cosiddetta “South Trip” ci ha visti in una parte degli States impregnata ancora della cultura Western, dove veri Cowboy tutt’ora vivono in suggestive cittadine con gli stessi Saloons ed Empori che hanno caratterizzato quella celebre epoca. In particolare Tombstone, città fantasma emblema del Vecchio West, mi ha lasciato piuttosto impressionato. Ma abbiamo anche visitato la seconda più grande miniera degli Stati Uniti, dove lo stupore per l’immensità di quel lavoro è stata superata solo dall’emozione data dal detonare settemila dollari di dinamite per far saltare in aria un pezzo di montagna. Ho cavalcato in una splendida gita in mezzo ai cactus, ho varcato lo sconvolgente confine che separa gli USA dal Messico e che in pochi metri mostra un cambiamento troppo radicale agli occhi di un europeo che di veri confini non ne ha mai visti. Ho stretto la mano a centinaia di persone, ho raccontato chi ero e la mia storia a migliaia. Ho messo alla prova il mio palato con cibo messicano non adatto ai deboli e ho goduto di tutti gli agi che quella ricca America mi ha potuto offrire. Decisamente di momenti di noia non ce ne sono stati.

Intanto l’inglese si dimostrava meno ostico, e il gruppo si faceva sempre più compatto, con gli ovvi screzi che non mancano mai. Una settimana in cui mi hanno impressionato molte cose, ma forse più di tutte la generosità e l’ospitalità di quegli americani che sempre ci vengono descritti così arroganti.

Così, di ritorno a Tucson, quando per la prima volta ho realizzato che mi sarei dovuto separare dal resto del gruppo per due settimane, fui colto da un’improvvisa angoscia: mi ero abituato a certi livelli di avventura e divertimento, non avevo più intenzione di accontentarmi.

E infatti le mie previsioni erano giuste, ci sono stati numerosi momenti di noia in cui osservavo mesto il mio tempo negli States venir sprecato. Ma le storie più avvincenti che ho raccontato al mio ritorno si sono svolte proprio durante il periodo con la mia “Host Family”.

Tutti i miei compagni di avventura si erano sistemati in coppie con famiglie che abitavano in città con lussuose case con piscina, io ero in un rustico Ranch nel bel mezzo del nulla, e sicuramente non mi diedero molto tempo per abituarmi a quello stile di vita: il primo giorno, durante una solitaria esplorazione della loro proprietà un terrificante suono mi riscosse dai miei pensieri: un sonaglio. Era la prima volta che udivo quel segnale di pericolo, ma avvertimenti precedenti mi avevano messo in guardia, il Serpente a Sonagli è un pericolo da non sottovalutare. Così, col panico che mi strozzava la voce e indietreggiando con cautela, invocai aiuto. E fortuna volle che a giungere fu il mio “host father”, un uomo d’altri tempi che già prendeva la mira con il suo fucile e colpiva a ripetizione il sottile bersaglio che mi puntava. Ci vollero sei proiettili e un bastone per placare gli ultimi istinti di vendetta e rendere innocuo quell’abominio. Quella era l’America del Secondo Emendamento, e quello era un americano assiduo sostenitore della giustizia privata. Dopo quell’esperienza sconvolgente le storie incredibili da raccontare aumentarono ancora, in quanto quello stesso serpente che aveva tentato di addentarmi subì lo stesso trattamento da parte mia, per cena. Tutt’ora nessuno mi crede quando spiego che aveva addirittura un buon sapore.

L’indomani partimmo per una baita montana nel Nord dell’Arizona, dove realizzai che afa e siccità non erano una costante per tutto lo stato. Quell’ambiente mi ricordava fin troppo casa per soddisfarmi, a vivere in sconfinati boschi al freddo e lontano dalla civiltà ci sono fin troppo abituato. Unico picco di divertimento in quei giorni di noia fu la mia prima volta nel premere un grilletto potenzialmente letale che mi ha fatto capire la sensazione di invincibilità provocata dal tenere in mano quegli strumenti di morte, probabilmente causa degli attimi di follia omicida tristemente frequenti nel suolo statunitense.

Finalmente dopo una settimana tornammo al Ranch, dove ebbi l’occasione di rivedere i miei amici internazionali, cavalcare, pescare, sparare con un indefinito numero di armi, assaggiare per la prima volta in vita mia carne d’orso e di cinghiale, visitare musei ed esplorare caverne sotterranee. Abbastanza per annoiare tutti i miei amici e tutti voi lettori con resoconti che sembrano non terminare mai.

Dopo aver deliziato tutti con un piatto tipico Valtellinese (i celebri Pizzocheri) per l’ultima cena prima della separazione dalle famiglie ospitanti, mi ritrovai a preparare per l’ennesima volta la valigia, ma con rinnovato entusiasmo: questa volta ero conscio che l’indomani sarebbe iniziata la visita a posti meravigliosi e indimenticabili. In molti nelle settimane precedenti mi avevano ripetuto che la “North Trip” era riservata per la parte finale in quanto dopo aver visto luoghi come il Grand Canyon e la Monument Valley nulla avrebbe potuto reggere il confronto.

Finalmente il gruppo si era riunito e l’entusiasmo era negli occhi di tutti. E così in successione fin troppo veloce iniziarono quelle esperienze stupende che mi hanno lasciato ricordi che mai diverranno meno nitidi: kayaking in uno splendido lago dallo scenario mozzafiato, tour con Jeep nel quasi inaccessibile deserto e poi, finalmente, approdo nel luogo per cui l’Arizona è celebre nel mondo, il leggendario Grand Canyon.

Significativo per me fu l’istante in cui per la prima volta lo vedemmo attraverso i finestrini del furgone. Esclamazioni di meraviglia e stupore, da parte di tutti, ma io ricordo di non aver aperto bocca. Non trovavo nessuna parola adatta. Mi sforzavo, ma nulla. È indescrivibile, e non potete capire cosa sia solo guardandolo in foto, dovete essere là. E io c’ero, in rispettoso silenzio. E così l’ho guardato per i due giorni successivi, mai annoiato da quello scenario. Ho visto il sole tramontare dietro quelle rocce colorandole di un vivido arancione, ed ero là a guardare il disco solare ricomparire dalla parte opposta, in un surreale scenario di tenui colori. Nel mezzo non sono riuscito a staccare gli occhi da quel cielo stellato, non inquinato dalle luci artificiali che condannano molti ad una vita senza poter mai ammirare la Via Lattea in tutta la sua magnificenza.

Ci venne data anche l’occasione di discendere all’interno del Grand Canyon, ma con mia enorme frustrazione l’esplorazione si interruppe troppo presto a causa dell’incapacità di proseguire di alcuni compagni non allenati alla fatica.

Dopo la seconda alba proseguimmo sulla nostra strada con una tratta esageratamente lunga (nonostante ormai mi fossi abituato a viaggi di tre ore ogni giorno) e arrivammo fino al confine con l’Utah per ammirare anche la Monument Valley, zona caratterizzata da impressionanti rocce che conferiscono al paesaggio una bellezza che tentò di saziare i miei occhi, già sfamati dal Grand Canyon. Purtroppo la nostra visita si concluse subito per riportarci ancora verso Sud, dove trascorsi i giorni più belli con un gruppo che ormai si era fatto incredibilmente coeso.

Giungemmo quindi a Phoenix, l’enorme città capitale dell’Arizona dove la pioggia monsonica evapora ancor prima di toccare terra a causa del caldo che fa ribollire il terreno. Lì sperimentammo un’attività detta “tubbing” che consiste nel farsi trascinare dalla lenta corrente di un fiume navigando su comodi gommoni. Molto piacevole se si è con la giusta compagnia, e io ne ero provvisto.

Ma ormai lo spettro del ritorno aleggiava tra noi, e Tucson era la nostra meta finale, così ci gustammo l’ultima notte senza chiudere occhio tra preparativi e addii.

La mattina lenta era giunta, e io avevo il primo volo. Furono versate così tante lacrime che l’Arizona avrebbe potuto risolvere i suoi problemi idrici, ma l’intensità di quel momento ancora mi fa venire i brividi: non avevo mai dovuto dare un tragico addio per sempre ad un amico, in quanto fra promesse di rivedersi io avevo già la cupa certezza che non avrei mai rivisto nessuno di loro. E così, con occhi arrossati nel vano tentativo di non piangere per mantenere l’orgoglio, mi imbarcai per un altro viaggio che mi avrebbe riportato a casa, come un lungo e doloroso risveglio da un dolce sogno che non vedi l’ora di raccontare a tutti i tuoi cari.

Dunque, è ora di ringraziamenti:

Inizio con Alfredo Cantoni, che mi ha a lungo aiutato a compilare quell’eterna burocrazia che mi ha dato tante difficoltà; poi Flaminio Benetti, responsabile degli scambi e mediatore di tutto ciò; Shawn Dunn, inquietante personaggio che tanto mi aveva spaventato all’inizio e meraviglioso “chaperon”, principale responsabile della piena riuscita di quest’esperienza; la famiglia Perkins, che mi ha amabilmente ospitato per due settimane; tutti gli altri responsabili dello scambio sia da parte italiana sia statunitense, troppi per essere nominati uno ad uno e infine, protagonista di quella lunghissima telefonata che mi ha fatto fare la scelta giusta, Barbara Trimarchi, che ha l’onore di essere mia nonna, che forse più di tutti devo ringraziare perché il rimpianto di aver rifiutato qualcosa che mi ha così profondamente cambiato non l’avrei potuto sopportare.

https://youtu.be/wHWHhX9ccL0 (Perchè purtroppo le parole spesso non bastano a descrivere qualcosa che l’Alta Definizione riesce ad immortalare ancor meglio).