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Quando mi comunicarono che sarei andata in Norvegia, la presi male. Avevo inserito tre destinazioni totalmente diverse da quella che mi era stata assegnata – Nuova Zelanda, Cuba, Brasile – e, in più, la Norvegia non figurava nemmeno nella mia lista dei dieci posti da vedere prima dei trent’anni. Avevo vinto il primo posto, il viaggio – alloggio e biglietto aereo – sarebbe stato pagato interamente dal Lions Club, per questo speravo in una delle tre mete da me scelte. Tuttavia, non è andata così. 

Partii il 3 luglio alle 4:30 di mattina, diretta all’aeroporto di Bologna. Ricordo che quella notte non avevo chiuso occhio nemmeno per un secondo: stavo lasciando la persona che più amo sulla faccia della terra nel momento più sbagliato, proprio quando volevo starci più insieme, e per di più per un mese intero. Salii sul primo aereo – diretto a Vienna – carica di odio per quello stato disperso nel nord del mondo, il countdown nella mia testa segnava meno ventidue giorni al mio ritorno. Presi tre aerei diversi, perché la mia destinazione non era semplicemente Oslo o una qualche altra città del sud: io sarei andata al Polo Nord, dove c’è luce ventiquattro ore al giorno, a fare trekking.

Ma per quanto odio potessi avere dentro, la Norvegia lo abbatté tutto nel giro di qualche ora. 

All’aeroporto di Harstad, prima tappa del mio viaggio, incontrai gli altri ragazzi: eravamo diciannove da dodici paesi diversi, tutti tra i diciotto e i ventun anni. Al contrario degli altri viaggi, non mi era stata assegnata alcuna famiglia, avrei passato il mese in un campo con altri ragazzi e avremmo cambiato quattro città. 

La prima settimana tutto fu strano. In Norvegia, i pasti sono completamente diversi da quelli in Italia: si fa colazione la mattina, poi si mangia il pranzo – preparato al sacco  – quando, come e dove ti pare; alle 15:30 è servita la dinner e poi alle 19:30 la supper. Ero convinta sarei dimagrita facendo trekking, al contrario sono ingrassata mangiando quasi ogni minuto. 

Altra nota dolente dei primi giorni fu la luce. In quanto ex amante accanita del buio trovavo assolutamente fastidioso che il sole non scomparisse mai, che la luce fosse sempre lì, presente. Non capivo in che parte del giorno ci trovassimo e la sera io e la mia compagna di stanza – una ragazza tedesca molto simpatica di nome Kim – eravamo costrette a mettere asciugamani e sciarpe davanti alla finestra per evitare che la luce entrasse. Mi sembrava che il sole ci prendesse in giro: calava, calava, e la luce diventa arancione e oro e tu eri sicuro che quella, quella era la volta giusta, la volta in cui il sole sarebbe affogato nel Mar di Norvegia lasciando spazio al buio; invece, quel simpaticone sfiorava l’acqua cristallina e ricominciava a salire. Anche questa volta, ci sarebbe stata luce la notte. Alla fine, me ne sono innamorata. Una cosa che mi ha 

insegnato vivere al Polo Nord è che con la luce puoi fare tutto, è il buio a limitarti. Adesso, ironia del secolo, faccio fatica a dormire con il buio.

La cosa che mi creò meno problemi fu il freddo. Ho sempre amato il freddo e non lo ho mai sofferto, per cui si può dire che quello era il clima per me. Tuttavia, il sole di Norvegia è più caldo di quello in Italia, visto che ti trovi decisamente più vicino ai poli. Sono stata fortuna e la temperatura è stata fra i quattordici e i ventidue gradi per tutta la durata del viaggio.

Ci hanno portati a vedere il centro di Harstad, la chiesa e il campo di concentramento che si trovano accanto alla scuola in cui alloggiavamo; siamo entrati in una base militare per visitare un cannone risalente alla Seconda Guerra Mondiale e il periodo immediatamente successivo; ci hanno portati a visitare il Kva Fjord, nella fattoria museo di una famiglia gentilissima e molto accogliente che ci ha preparato i waffles norvegesi – ne ho mangiati quattordici con il burro e lo zucchero. L’ultimo giorno ad Harstad ci hanno fatto scalare una piccola montagna alle spalle della città da cui avevi accesso ad un ottimo panorama. L’ultima notte ci hanno portati a Nupen a vedere il sole di mezzanotte. Non descriverò la scena. Non ci sono parole per descrivere la meraviglia e la sensazione che si prova in quel momento. So che è un cliché e proprio come tutti i cliché, è vero.

La tappa successiva è stata Grotavaer, una piccola città a veti minuti di traghetto e un’ora di autobus da Harstad. Nonostante questo, il paesaggio era completamente diverso: tutto era più brillante e selvaggio e la scuola in cui alloggiavamo si trovava tra alte cime innevate ed un mare cristallino. So che può far ridere, ma c’erano pecore allo stato brado ovunque e hanno anche inseguito una mia amica.

Qui, si moltiplicarono le attività all’aperto. Appena arrivati ci hanno portati  su di un atollo a venti minuti di barca a motore dalla costa, il quale era stato attrezzato per il camping e i percorsi avventura. Dopo un’ora e mezza di trekking a sorpresa, abbiamo indossato le imbracature e attraversato un ponte di corda a una decina di metri da terra. Poi, abbiamo preso i kayak e remato davanti alla spiaggia di sabbia bianchissima. 

Il giorno seguente ci hanno portati a pescare, anche se non è una cosa che ho potuto apprezzare molto perché ero K.O. dopo un giorno intero di mal di testa battente. 

Al contrario, ho potuto apprezzare a fondo il trekking fino ad una spiaggia di sassi, dove abbiamo fatto il barbecue. In seguito, la guida ci ha portato a fare un percorso avventura che consisteva nel saltare da uno scoglio all’altro, infilarsi in stretti passaggi e arrampicarsi su pareti non troppo alte. Ricordo di essermi tagliata il palmo di una mano con una roccia, così io e Yash – una delle persone che ha reso il viaggio indimenticabile – urlavamo “No, Wilson!” ogni volta che ci lasciavamo alle spalle uno dei sassi che avevo marchiato con la mia impronta insanguinata (spero abbiate colto il riferimento al film Cast Away con Tom Hanks). C’è una cosa di quel giorno che ricorderò e amerò per sempre, una cosa che mi sono ripromessa di fare la prossima estate con la mia persona: all’ingresso alla spiaggia di sassi ci sono due massi che bloccano il passaggio, fatta eccezione per una feritoia grande abbastanza per un uomo. La leggenda narra che se attraversi quel passaggio da solo, in solitudine trascorrerai il resto della tua vita; al contrario, se lo attraversi tenendo qualcuno per 

mano, non rimarrai mai solo. Ovviamente, ci siamo tutti presi per mano e abbiamo stretto forte mentre passavamo la feritoia e arrivavamo sulla spiaggia.

L’ultimo giorno a Grotavaer lo abbiamo trascorso campeggiando sull’atollo. Era una giornata calda e l’acqua cristallina ti faceva sentire ai Caraibi – ma era solo una sensazione e facevi meglio a non tuffarti dato che la temperatura dell’acqua era tra i tre e i cinque gradi: ti sarebbero venuti i crampi in meno di due minuti e saresti annegato. La mattina abbiamo preso le barche e abbiamo fatto un giro della baia. A questo punto dovrei dilungarmi raccontandovi dello strano trio – io, Isabell e la barca a remi –, ma la storia è troppo imbarazzante per essere divulgata sul web, perciò mi limiterò a dirvi che Isabelle ha sviluppato un forte attaccamento per la terra ferma e io ho trovato il mio nuovo grande amore: la barca a remi. Il pomeriggio abbiamo fatto trekking fino ad una parete di roccia sul mare dove abbiamo indossato nuovamente le imbracature, questa volta per fare rapel – si tratta della discesa in corda doppia. Dopo il barbecue, abbiamo chiuso quella giornata perfetta prendendo la barca a remi e a motore (io, ovviamente, ero su quella a remi) per vedere il sole di mezzanotte dal mare. Alla fine, la guida ha legato la barca a remi su cui c’eravamo solo io, Kim e Yash, alla sua barca a motore, che era decisamente più affollata, e ci ha portati in mare aperto. Le onde, anche se dolci, erano alte circa due metri e sembrava di essere su di un’attrazione acquatica di parchi tipo Mirabilandia o Gardaland, anche se gli spruzzi che ti arrivavano erano decisamente più gelidi. Ho dormito bene anche se avevo trovato un ragno enorme nel sacco a pelo; l’unico problema della giornata lo hanno costituito i bagni, ma questa è un’altra storia (dell’orrore).

Il giorno seguente, dopo una doccia calda e un pasto troppo pesante, siamo saliti sul peschereccio alla volta dell’isola di Andoya, la nostra penultima destinazione. Il mare era mosso, troppo. Siamo stati tutti male durante il viaggio e io sono stata per tutto il tempo sul pontile, con il risultato di fare una seconda doccia quel giorno, congelata e con ancora i vestiti addosso. Però, mi è piaciuto anche stare male su quella barca e pregare di arrivare in fretta. Ero con le persone giuste.

Di tutti i posti, l’alloggio nella città di Andenes è stato, senza dubbio – passatemi il termine non proprio aulico – il più figo. Si trattava di una base spaziale, l’Aurora Space Center, da cui venivano lanciati razzi per ricerche scientifiche sull’aurora boreale. Il primo giorno ci hanno divisi in due gruppi per una simulazione di missione spaziale. Un gruppo era costituito dagli scienziati che, da terra, lanciavano un razzo e analizzavano i dati sull’aurora; l’altro gruppo saliva sulla navicella e volava nello spazio. Poi, si faceva a cambio. 

Per correttezza, devo dire che una cosa terribile è successa ad una persona a me molto cara, in Italia, quindi la settimana dal 15 al 22 luglio – il giorno della partenza – è un unico blocco di flash e ricordi confusi. Alcune cose però le ricordo molto bene. 

Ricordo la mattina dopo, il 16 luglio. Ci hanno divisi in piccoli gruppetti e ci hanno fatto costruire un piccolo razzo con la colla e il legno, che poi abbiamo anche lanciato, tra countdown gridati a gran voce e puzza di polvere da sparo. Credo che il piano per quei giorni includesse anche un trekking di una giornata intera, ma sfortunatamente per noi ha cominciato a diluviare e così abbiamo fatto una passeggiata sulla spiaggia e mangiato waffles.

Poi, ci siamo trasferiti a Stokmarknes, in un’hotel di lusso in cui alloggiavamo nelle case dei pescatori – il nome è fuorviante, in realtà avevano l’aspetto di bungalow con la terrazza a palafitta nel mare e gli interni di un super attico a New York. Di questi ultimi quattro giorni ricordo una sera passata nella sauna a parlare con le ragazze che dividevano la casa con me: sembrava che ci fossimo sempre conosciute e che, dopo anni divise, ci fossimo ritrovate. 

Lunedì, l’ultimo lunedì al Polo Nord, ci hanno portati sulle isole Lofoten e poi in crociera notturna nei fiordi. Purtroppo era una brutta giornata, la nebbia era bassa sulle isole, perciò l’unica cosa visibile per tutto il viaggio è stata l’acqua scura sotto la nave. Nonostante questo e nonostante il mio odio per tutte le imbarcazioni che non siano a remi, ho adorato quella crociera e spero vivamente di tornare presto a farne un’altra, magari con il bel tempo.

Tuttavia, la cosa che ricordo meglio di Stokmarknes sono state le lacrime che abbiamo versato tutti il giorno della partenza. Non ho dormito la notte tra il 21 e il 22 per salutare quelli del gruppo che partivano prima di me. Ho pianto all’aeroporto di Oslo quando ho salutato chi non avrebbe preso l’aereo per Vienna con me e ho pianto all’aeroporto di Vienna quando ho salutato Linda. Infine, ho pianto sul volo Vienna - Bologna, abbracciata alla bandiera italiana su cui i miei amici avevano scritto una dedica. Devo aver fatto pietà agli altri passeggeri del volo, ma non mi importa.

Ora che ho descritto il viaggio, vorrei dire due parole sulle persone che lo hanno vissuto con me, a partire dai miei amici. Quando sai che una persona è quella giusta? Quando sai che chi ti circonda ci tiene veramente a te o lo fa per convenienza, per non stare solo? Ho vissuto una delle esperienze peggiori della mia vita mentre ero in Norvegia e tutti loro, dal primo all’ultimo, anche se li conoscevo da due settimane, mi sono stati vicini come se mi conoscessero e amassero da tutta la vita. Lo sforzo che hanno fatto per farmi sorridere e divertire è qualcosa che non scorderò mai. E se penso a quanto sono stata bene con loro, se penso a quanto tengo a quei ragazzi, mi viene da piangere, anche adesso, perché mi mancano tutti in un modo che non credevo possibile. Loro sono le persone giuste, hanno reso un viaggio stupendo in un’esperienza indescrivibile: mi sono sentita a casa e amata con loro, perché anche nell’imperfezione e nel difetto, sono unici, ognuno fantastico a modo suo. Ognuno di loro merita il meglio dalla vita perché loro sono il meglio che questo mondo possa creare. Devo così tanto a quei ragazzi. Mi manca il nostro branco di lupi, costantemente affamato e pronto a buttarsi sul cibo come se non mangiasse da anni; mi manca il mio branco di lupi sempre pronto a fare festa e divertirsi e ridere e vedere il meglio della vita. La Norvegia mi ha regalato anche questo: una pazza famiglia che vive in due continenti diversi e parla undici lingue diverse. E ne sono immensamente grata. 

A rendere l’esperienza indimenticabile sono stati anche tutti i membri dei Lions Club che ci hanno accolti come fossimo loro nipoti. Tove, ad Harstad, è stata come una mamma per noi. Le abbiamo cantato Happy Birthday per il compleanno e lei ha riso e deciso che per festeggiare bisognava mangiare gelato. E’ una persona dolcissima con una risata contagiosa e un gran cuore. Ha anche una pazienza infinita visto che ha provato ad insegnarci il norvegese, anche se con risultati miseri (eravamo pessimi alunni).

Arne – che prima di incontrare di persona credevo fosse una donna – e sua moglie sono e saranno per sempre i nostri nonni norvegesi, così come tutti gli altri membri Lions che ci hanno portati in posti stupendi e ci hanno riempito il frigo di cioccolata e patatine quando eravamo a Stokmarknes; tutti coloro che ci hanno fatto ridere e sentire a casa anche a quattromila chilometri di distanza – questo almeno per quanto mi riguarda, visto che dalla

mia città al Polo Nord c’erano, indicativamente quattromila chilometri; per alcuni erano molto di più. Mi spiace non ricordare tutti i loro nomi, troppo diversi da quelli italiani, ma tutto quello che hanno fatto per noi non potrò mai dimenticarlo. Questo perché non erano obbligati, ma lo hanno fatto naturalmente, perché sono brave persone. 

Per finire, voglio dire che non ci sono stati problemi di alcun genere e che ho trovato l’organizzazione assolutamente fantastica ed impeccabile. Anche quei momenti che mi sono sembrati inizialmente troppo morti, perché non avevamo niente da fare, li ho dovuti riconsiderare perché ci sono serviti per legare di più. E so che sembrerà assurdo, visto che sono italiana, ma il cibo non era per niente male. Certo, non era il cibo di casa, ma in fondo non doveva nemmeno esserlo e mi è piaciuto molto

Se avete mai viaggiato, avete presente quelle cose che fai o dici durante il viaggio e poi restano per sempre legati a quell’esperienza? Ecco, adesso, ogni volta che gioco a carte non posso fare a meno di pensare alle notti insonni passate a ridere e giocare a Donkey o pinnacolo; quando bevo tè mi vengono in mente Isabel e Lukas e la loro disputa su come preparare il tè perfetto – quanti secondi va tenuta la bustina in infusione per ottenere il sapore migliore? Gli elefanti mi ricordano Kim, che ne andava matta ed era volata fino in Sud Africa, nonostante il suo terrore dell’aereo, per vederli dal vivo. Sono diventata una persona più ottimista grazie a Yash e alle sue iniezioni di positività e ho ricominciato a suonare la chitarra per non lasciare solo Haluk. Poi ci sono tante altre piccole cose per cui riderò sempre, come il fatto che fossimo costantemente affamati e l’unica cosa che ricordiamo in Norvegese è “takk for maten” che significa, appunto, “grazie per il cibo”. Oppure tutte le volte che ce ne uscivamo con frasi tipo “ma dove credi di andare così vestita? Al Polo Nord?” o “Ma perché ti porti tanto cibo? Non andiamo mica al Polo Nord!”, per poi realizzare che eravamo, effettivamente, al Polo Nord. Rido ancora per le battute che facevano sulla mia totale incapacità di aspirare la h al momento giusto.

Non posso dire che è stata l’esperienza migliore della mia vita, ho solamente diciotto anni e sarebbe troppo avventato pensarlo, considerando quanto poco ho vissuto e quanto ancora ho da vivere. Posso però affermare con certezza una cosa: questo viaggio al Polo Nord resterà dentro di me finché vivo perché mi ha lasciato un segno, un segno profondo e incancellabile come solamente le esperienze intese della vita sanno fare.

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